venerdì, Marzo 29, 2024
ArticoliStorie dell'altro secolo

Storie dell’altro secolo: Il palazzo di Genesio

Se penso al mio rapporto con il Molo mi sembra di poterlo esprimere soltanto per immagini. E la prima è quella del Palazzo di Genesio, intorno al quale ho trascorso gran parte della mia infanzia e della mia giovinezza. Il Palazzo prima della guerra era formato da una torretta a due piani dalla quale partiva una specie di trenino che si univa al Palazzo di Ulde. Genesio Loffredo lo ricorodo ormai vecchio sul balcone lato Scaloni, seduto su di una poltrona di vimini con addosso una vestaglia a scacchi neri e marroni che faceva tutt’uno con il colore della sua faccia che pareva quella di Manitù il grande capo indiano. In testa un’immancabile topa nera. La poltrona era sempre messa in modo che stesse spalla alla piazza, forse perchè voleva vedere il ritorno delle paranze che hanno rappresentato gran parte della sua vita, non solo perchè era armatore del “Tirrenia”, il cui capopesca era un portercolese chiamato Piccomo(piccolo uomo), ma in quanto era stato il proprietario delle “caldaie” per la tintura delle reti da pesca che si trovavano nei magazzini di sua proprietà nel trenino.

Le caldaie erano dei grossi pentoloni di rame e funzionavano a legna. Un uomo soprannominato “Cotenna” li riempiva d’acqua e quando bolliva ci buttava dentro la “zoppina” che altro non era che scorza di pino macinata. Quindi vi si tingevano le reti di canapa, perchè i vecchi dicevano che i nodi ne uscivano rinforzati. Avere disponibilità di legna era molto difficile; la si procurava raccogliendo pezzi di tavole o rami portati a riva dalle mareggiato che lo stesso Cotenna trasportava su di un barroccino, o all’occorrenza si scambiavano con contadini pesci e legna. In Inverno l’acqua della tintura ormai inutilizzabile, la zeppina, veniva richiesta dalle donne del Molo per curare i geloni delle mani e dei piedi. Stiamo parlando degli anni ’20-’30. Sul confine con il Palazzo di Ulde dsi trovava il magazzino nel quale si vendeva “frutta e verdura” che era gestito da Virginia, la zia di Enzo il Gatto, che negli anni a venire si sarebbe trasferita in via XX Settembre davanti la Macelleria di Alighiero, oggi Fiorenzo. Finita la guerra il Palazzo fu costruito per intero. La famiglia che fino ad allora aveva abitato nella torretta prese possesso delle case al primo piano ed una del secondo più i fondi dove una volta c’erano le caldaie e che furono adibiti a garage. Il primo a gestirli fu un giovane intorno ai trent’anni proveniente da un paesino dell’entroterra maremmano: De Pasquale “il Garagista”.

Del suo passato non si conosceva nulla, anzi dovrei dire che era avvolto da un alone di un certo mistero. Solitario ed alquanto stravagante addomesticò un gabbiano a cui diede il nome di “Gigi” che portava disinvoltamente a passeggio sulla spalla sinistra. Ma il volatile aveva il vizio di rubare i pesci dalla poppa delle barche dei Pozzolani finchè un giorno uno di questi con un colpo di biagio lo accoppò e… addio Gigi. Tutti i sabato sera i giovani paranzellai Pilarellai prima si sgragiavano poi si improfumavano quindi, in dodici o tredici alla volta, salivano sul 1100 nero di De Pasquale, chi dentro la macchina chi sul cofano e persino sui parafanghi di dietro e si facevano portare al casino di Orbetello dove si facevano quella pelle sognata tanto per tutta la settimana. E non mancava mai chi si faceva il bis. Un bel giorno così come era venuto, De Pasquale sparì e nessuno sentì più parlare di lui.

Gestire i garage alla Pilarella era fonte di guadagno, perchè in quegli anni il “postale” ormeggiava da noi ed i molti pendolari per il Giglio preferivano lasciare la macchina ben custodita. Quelle erano Estati in cui veniva a villeggiare al Palazzo una coppia, dei “Signori” come allora venivano chiamati, il cui nome era Braccialini. Lei era bassa con una camminata alquanto strana, lui alto e possente. Non avevano figli ma un canino che amavano alla follia. Arrivavano quando il sole scapolava dai palazzi su una bellissima macchina rossa che appena posteggiata veniva circondata da noi ragazzini che non avevamo mai visto nulla di simile. C’era persino chi si avventurava a sfiorarla, sognando ad occhi aperti. Avevano inoltre una barca che ormeggiavano davanti al portone. Si chiamava San Paolo.

Genesio era sposato con Armida ed ebbero cinque figli, quattro femmine ed un maschio. La primogenita fu Annina, la mamma di Francesco Cerulli, conosciuto come Cecchino o meglio Ballantino. Questi assomigliava in modo impressionante al nonno che da piccolo portava sempre con se. Cecchino gestì il garage dal dopo De Pasquale fino alla chiusura che coincise con il trasferimento del postale al Valle e la susseguente vendita degli storici fondi al più noto palazzinaro dell’epoca: Checco De Pirro. Ballantino è stato ed ancora è un grande “viveur”: camicia sempre color giallo aperta sul petto villoso su cui ciondolava un’enorme catena d’oro a maglie larghe con appeso un crocifisso talmente grosso che si poteva portare in Processione. Batteva i locali alla moda senza badare a spese per rimorchiare vecchie ma affascinanti tardone, che portava a cena a lume di candela nei ristorantini più intimi dove era di casa. Quasi sempre, finita la cena, andava con queste aristocratiche signore alle Terme di Saturnia per un bagno di notte e tutto finiva, a dirlo a parole sue, con uno “schiumone da far perdere i sensi”.

La seconda figlia di Genesio fu Assunta, sposata De Pirro, la quale ha avuto due figli: Tonino, comandante Snam a Ravenna, ed Armida, bel volto dal profilo romano, che fu una delle “bellezze” che salivano sui Carri del Viti. Assunta, così come Irma, altra sorella, l’unica di carnagione chiara, e direi la più dolce, non ha mai lasciato il Palazzo. La quarta figlia è Angiolina che dopo aver sposato Vongher, il figlio del Centenario Cachino, è andata ad abitare al Poggio del Valle nella Reggia di famiglia ed ha avuto te figli: il Mandrillo, l’Avvocato e Serenella. L’unico maschio della seconda generazione era Stefano conosciuto come Nino di Genesio. Sarebbe mio immenso disappunto se quello che mi appresto a scrivere lo facesse passare per una cattiva persona, cosa assolutamente non vera, anzi non credo di esagerare se definisco Nino uno fra i personaggi più caratteristici del Molo del Novecento. E’ stato il primo Pilarellaio, e forse Santostefanese, ufficiale di Marina Militare. Come Irma anche lui non si è mai sposato ed era di colorito bianco. Carattere burbero, espressione corrugata, occhietti simili a fessure con due baffi presto ingrigiti. Ma educato e gentile. Negli anni in servizio in Marina si dice sia stato un buon chiavatore. In paese ebbe una lunga relazione improntata sul “lascia e piglia” con Ida la sorella di Carlo il Farmacista. Non aveva grandi amici, soltanto una coppia di forestieri con cui andava in giro alla Caletta, con lui che sembrava un suo gemello e lei con una voce da uomo e che ogni tanto lo accarezzava. Nino camminava su e giù per il molo con passo marziale, testa piegata verso il basso quasi a non voler guardare nessuno, braccia all’indietro dove le mani si univano all’altezza dell’osso sacro stritolando “Il Tempo”. Si rilassava soltanto quando saliva sul Blocco del Moletto, forse perchè si immaginava di essere sulla plancia di un cacciatorpediniere, ed incominciava a scrutare l’orizzonte in lungo e largo.

Ho iniziato scrivendo che la mia gioventù, l’ho passata per la maggior parte intorno questo Palazzo, ma sfido chiunque sia vissuto al Molo negli anni che vanno dal ’50 agli ’80 ad affermare il contrario. Probabilmente tutto dipende dall’estrema vicinanza con gli Scaloni che erano considerati “il cuore della via” ed il punto di ritrovo anche per chi veniva dai rioni lontani. Chi giocava con la palla a su e giù, chi con le figurine a schiaffo o a pè, chi a chiappà chia cuccù chi a zompetto, sotto il balcone di Nino e questo lo rendeva particolarmente nervoso. A quei tempi quello era l’unico Palazo ad avere il portone e questo permetteva alle donne di famiglia di tenerlo in ordine e pulito. Chi vi entrava veniva impossessato da un micidiale odore di varechina. La aporta era sempre chiusa, ma come si sa il proibito attrae mille volte di più di quello che si può fare, quindi se i ragazzini riuscivano ad entrare si scatenavano in urla e battiti di piedi, fin quando qualcuno usciva ed incominciava ad urlare. Una volta, sotto carnevale, tirarono una decina di bombette puzzolenti dentro il portone, Nino di affacciò in vestaglia ed agitando i pugni al cielo incominciò a gridare: “Chi ha buttato le scurregge in bottiglia nel portone? Ora chiamo i carabinieri”. Spesso tirava secchiate d’acqua, a volte se ne stava ad osservare in silenzio non visto, con la testina grigia che sembrava una gabbianella che spuntava da accanto la grata del Viti per poi scatenarsi in urla feroci. Il cuore in gola veniva al malcapitato che mandava la palla nella chiostra, tenuta in modo impeccabile da Armida, con i gerani, le piante rampicanti ed i panni ad asciugare. Perchè doveva saltare e c’era la possibilità di essere sopreso dal lupo. A volte ti ridava la palla indietro, ma, massimo della malvagità, tagliata in due. Con l’avanzare dell’età cercò di avvicinarsi alle persone e negli ultimi anni della sua vita lo ricordo sul balcone con la vestaglia grigia o in pigiama celeste, barba lunga di diversi giorni e gli occhi di un arzillo strano, mentre cercava di richiamare l’attenzione di chiunque passasse. Tonino raccontava che sia morto due o tre volte, perchè dopo aver ricevuto la benedizione dal prete più volte, si riprendeva e ricominciava a camminare ed a mangiare come se nulla fosse. Insomma un vero fisicaccio.

Nel 1969 nei sabato sera di primavera alla televisione trasmettevano un varietà con Raffaele Pisu, forse il suo più grande successo dai tempi del “L’amico del giaguaro” con Corrado e Marisa del Frate. Lo show terminava con il presentatore che teneva fra le braccia un pupazzo di nome Provolino, con il quale dialogava. Quando scorrevano i titoli di coda entrava in scena una stangona con delle cosce che non finivano mai. A quella vista Provolino cominciava ad agitarsi e si buttava letteralmente fra le braccia della ragazza gridando: “Mamma portami a nanna!”. La giovane era Giovanna Fiorentini, aretina, e quell’estate insieme ai genitori aprì una boutique, lo Splash Down, proprio li, dove una volta erano le caldaie. Giovanna, bel viso, capelli sempre cortissimi, un piccolissimo neo sulla sinistra del labbro superiore. Camminata da modella qual’era, quando passava faceva voltare chiunque. Andava tutti i giorni nella pausa pranzo a prendere il sole al Moletto proprio sotto il pallone di paglia dell’Enel, indossando dei sgambatissimi costumi. Ma Giovanna, come tutte le modelle, era fredda, mancava di sensualità. La prima commessa del negozio fu Angioletta, volto da Grand Hotel, carnagione color latte, falsamagra, lei si con uno sguardo molto sensuale. Per rendere meglio l’idea, se fossi stato l’editore di Max, il calendario l’avrei fatto fare a lei meglio che a Giovanna. Ma si sa, tutti i gusti sono gusti. Ciò non toglie come hanno detto Mauro e Scaveccio che Giovanna sia stata uno dei personaggi di spicco delle Estati del Molo per almeno un ventennio. Oggi dirige una scuola teatrale a Bologna, ha una casa alla Fortezza e non la si vede quasi più al Molo. La presenza di Angioletta faceva si che il fratello, il giovane Lalla, poteva passare giornate intere come ornamento del negozio appoggiato alla porta con foulard al collo e Muratti Ambassador fra le dita. Altra presenza assidua era la figlia di Leandro, molto amica della proprietaria. Con il passare degli anni altra commessa storica è stata Giuliana di Magda che conosciuto un pò tutte le gestioni. L’altro magazzino è da più di trent’anni occupato dalla famiglia De Pirro che gestisce la Veleria, attività storica del Molo. Fondata dal capofamiglia Andrea e gestita nel corso degli anni dai figli e ora anche dai nipoti, ci piace ricordare chi non c’è più: Mauro con il mitico Maggiolone che serviva per portare i fratelli a Cala Galera. Fra il portone e la veleria per molti anni c’è stata l’unica cabina telefonica di Via del Molo. Dal dopoguerra ad oggi molti sono stati gli inquilini che hanno abitato il Palazzo, fra i tanti il Dottor Giulio Busonero che aveva due figlie, la più grande delle quali è Paoletta, sposatasi con Sergio Wongher e che ogni volta che mi incontra agitando la mano, mi sussurra: “Come sono stata bene quando abitavo nel Palazzo di Genesio”. A seguire Torettodibice e Silvana, che, ancora oggi ultrasettantenni, fa grande tenerezza vederli passeggiare mano nella mano come due teenagers. E poi Terese e Renzo l’orbetellano nipote di Demo Bacciani, e gli Ebrei su nella mansarda.

Questa è la Storia di un Palazzo e della sua dinastia che non esagero se definisco una tra le pietre miliari di una via, la via che ha dato il la al paese. Per fortuna la continuità è garantita, la famiglia continua ad amare l’edificio come ai tempi del trenino. Siamo giunti alla quinta generazione, ai figli di Annalisa e Simona, che tutte le estati vengono ad allietare le giornate della vecchia zia Irma e della più giovane Armida. Cosicchè la leggenda può continuarea, purche ci sia sempre qualcuno disposto a ricordare che tutto cominciò con un “C’era una volta le caldaie, Genesio ed un nuomo chiamato Cotenna…”.

“Passano le villeggianti con gli occhi di vetro scuro
passano sotto le RETI che asciugano sul muro”
(“Le acciughe fanno pallone” di Fabrizio de Andrè)

 

“Quattro porte, quattro verità ed ognuna sorrideva,
ed un PLAZZO di granito con un UOMO che GRIDAVA
e la luna che sembrava una patata. Ma GIOVANNA non l’ho dimenticata.”
(“Marianna al bivio” di Francesco De Gregori)

Ciao, una Rotonda sul mare il nostro disco che suona …