giovedì, Aprile 25, 2024
Storie dell'altro secolo

Storie dell’altro secolo: Lorenzo Taccini

Alle volte il caso lavora in maniera straordinariamente creativa. Durante le feste natalizie stavo guardando il dvd “Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano”, quando l’apparizione del protagonista, il vecchio ma sempre affascinante Omar Sharif, mi ha riportato alla mente un personaggio che ha movimentato circa un quarto di secolo della vita paesana, quella che va dalla metà degli anni ’60 fino alla metà degli anni ’80.
Il personaggio in questione, ormai dimenticato dai più e forse mai sentito nominare da almeno una generazione, l’ultima, si chiamava: Lorenzo Taccini. Giunse da Livorno ormai pensionato, in compagnia della moglie. Onestamente non so dire come e perché scelsero il nostro paese per passare la loro vecchiaia, ma ricordo perfettamente che andarono ad abitare nel penultimo palazzo di via Cappellini. I due non avevano figli, ma un piccolo cagnolino bianco. Taccini era un omone con aria da poeta francese, sigaretta fissa al lato della bocca, cappottone con bavero rialzato. Aveva una voce possente con un intercalare pieno di “boia deh”.
Lei era una signora molto riservata con un’ombra di tristezza nei suoi occhi, le cui sopracciglia erano sempre pittate di nero. I capelli, neri di tinta, sempre freschi di permanente, il naso importante che ben stava con il resto del viso spruzzato di cipria permettendo così, alle labbra rosso fuoco il giusto risalto. Fasciata con abiti di percolle o camiciette indossate su pantaloni di lino scampanati sempre di color bianco o rosa pastello. Ai due, venendo da una città, piaceva molto passeggiare nel Corso, e usavano frequentare il bar di Angelo Consolanti, un bar un pò’ retrò, gestito da questo giovane genovese, con un passato da cameriere sulle navi da crociera Costa, che si stabilì nel nostro paese dopo aver sposato la figlia di Zeffiro.
Il bar era frequentato anche da Cecco, che ogni volta che andava al banco, offriva le semine a Boccuccia, in modo che questi, nel mangiarle stringeva le labbra mostrando così la caratteristica forma della sua bocca. I coniugi Taccini si sedevano preferibilmente vicino alla porta, in modo tale da poter osservare il passeggio, che allora era molto più che ai giorni d’oggi, praticamente inesistente. Lui con un rosso nel bicchiere, lei con una tazza di the dove gettava due gocce di latte e quella profonda malinconia degli occhi. Il perché di tale tristezza era probabilmente dovuto all’apprensione per le condizione del marito che, purtroppo soffriva di quella malattia che, Giuseppe Berto in un suo romanzo aveva chiamato come “Il male oscuro”, cioè la depressione.
Questa faceva si, che le sue giornate erano un alternanza di momenti di buonumore con altri il cui morale gli andava sotto i tacchi. Era un grande appassionato di musica classica, di cui possedeva una collezione di centinaia di dischi, che ascoltava a volume altissimo, che poteva essere udito fin Alba la Puce, ed in basso fino al bar Centrale. Questo vi può immaginare la condizione in cui vivevano i vicini. Cambiava genere a seconda dell’umore; se era nero, metteva Bach o Beethoven, se invece era allegro sceglieva Strauss o la Marcia di Radetzki.
Era un uomo molto colto, con la passione dell’Odissea. Amava dire che avrebbe dovuto partecipare alla famosa trasmissione “Lascia o raddoppia”, ma tutto saltò perché il datore di lavoro non gli dette il permesso. La conosceva quasi tutta a memoria, ma il verso che preferiva ripetere era:

Ed Argo, il fido can poscia che dieci
E dieci anni anni invano aspettò Ulisse,
Gli occhi nel sonno della morte chiuse.

Quando era in preda all’ansia aveva la malsana abitudine di scavalcare il suo balcone (abitava all’ultimo piano), ed entrare nell’appartamento dei vicini, che erano Gioacchino e Mina Ballerano, i genitori di Tappo e Zi Meo. Una volta dentro apriva la vetrina, sceglieva un bicchiere del servizio bono e si serviva del cognac di contrabbando che Pierluigi aveva portato da uno dei suoi lunghi viaggi. Quindi si sedeva sulla poltrona e in silenzio si accendeva una sigaretta. La prima volta che Mina lo trovò, per poco non rimase fulminata dallo spavento. Nel frattempo diventò amico di “quelli della pallanuoto”, allora ragazzi umili che lo adottarono portandolo persino a qualche trasferta. Enrico, Lucianetto Africa, i fratelli Milano e Biancaneve, Adorno e sopratutto Franco Picchianti che divenne il suo più caro amico. Mai nessuno osò prenderlo in giro, anzi cercarono di inserirlo nella vita sociale, e lui ricambiava con un tifo infernale. Il solito confidente mi ha detto che, fu proprio lui a chiamare per la prima volta Franco: “La Bestia”.

Questi fino l’adolescenza era si alto, ma grassottello, infatti era chiamato Ciccio. Quando con lo sviluppo e i tanti allenamenti si affinò fino a diventare il più grande pallannotista della nostra storia, cominciò a tirare svirgole da ogni posizione, e fu un pomeriggio, sulle scale del Messico che Taccini gridò: “Sei una bestia!”. Franco a quel tempo abitava in cima alla scalinata del Leone, ed i due quindi erano distanti appena una ventina di metri in linea d’aria. Le finestre si guardavano e quando Lorenzo vedeva Francone assonnato alla finestra con voce forte lo chiamava e sorridendo mimava un rozzo crowl. Se al contrario era Franco a vedere lui in uno stato di profonda prostrazione subito lo chiamava vibrando poderose bracciate.

Di colpo Taccini cambiava espressione e tutto contento rispondeva. Finchè un giorno avvenne un fatto che avrebbe stravolto la sua vita. Era un pomeriggio autunnale di inizio anni ’70. C’era una calma irreale. Al largo le barchette con i pescatori intenti a totanare. Il murello di piazza era occupato in ogni ordine di posti. Dalla sinistra guardando il mare c’erano le bande di ragazzini intenti all’abbordaggio, al centro sotto l’aste delle bandiere tutte le Fiammifere, quindi a chiudere sulla destra i figli di Inne con le Fave Rosse. Le banchine di legno sotto le palme erano occupate da qualche coppietta intenta a pomiciare. All’improvviso si sentì un frastuono venire da via Cappellini. Gente che correva, i frequentatori del club, a quell’ora gremitissimo uscirono tutti fuori.

Arrivo un’ambulanza, i carabinieri e per ultimi, anche allora i vigili. Fecero sgombrare la scalinata e bloccarono le due entrate. Nessuno sapeva cosa era successo, ma ognuno diceva la sua verità. Dopo qualche minuto si seppe che la signora si era buttata dal terrazzo con il canino. Tutti pensarono che era stato Taccini, ma lei in un ultimo atto d’amore aspettò che lui uscì ed aspettò una buona mezzora prima di compiere il disperato gesto, in modo tale che il marito non potesse essere accusato. Da quella notte, Taccini si sentì tremendamente solo, ed incominciò ad alternare sempre più i suoi stati d’animo. E quelli bui erano sempre più lunghi. Le pasticche si mixavano con l’alcool, e le visite in casa Ballerano diventarono sempre più frequenti, con conseguente chiamata delle forze dell’ordine. Lo ricoveravano per un pò di giorni e dopo averlo imbottito di medicinali lo facevano uscire e camminava tutto imbrommito. Incominciò a trascurarsi, non si metteva la dentiera e portava la barba lunga di diversi giorni. Pur continuando, da buon livornese, a non andare d’accordo con i preti, si avvicinò a modo suo alla Fede.

Infatti entrava in chiesa e fumava decine di sigarette davanti all’altare, scatenando l’ira di Ninarello. Lo vedevi camminare con in mano il sacchetto della spesa tutto contento al guinzaglio della pazzia. Una volta si mise nel centro della piazza a dirigere il traffico, facendo formare una fila che arrivava alle pescherie. Gli ultimi anni, pranzava ogni giorno all’Argentario, dove Siro li serviva sempre una bistecca con l’osso e insalata, con un fiasco di Chianti. Si sedeva sempre sulla porta vicino alla cucina, così che ognuno che passava, vedendolo con il tovagliolo legato al collo lo salutava. Finito di mangiare usciva dal ristorante camminando per il Corso di bolina con il fiasco in mano.

Poi arrivò una mattina in cui si sentiva più carico del solito. Si barricò in casa con nel giradischi “La cavalcata delle valchirie” di Wagner. Spinse a tutta gallara, fino a forse dove non aveva mai osato e incominciò a buttare tutta la mobilia dalla finestra. Una volta finito chiuse la finestra. Arrivarono i carabinieri e financo i pompieri che riuscirono ad entrare. Lo trovarono a sedere sull’unica sedia rimasta con lo stravecchio nella mano e la sigaretta fra le labbra. Aveva gli occhi sbarrati e lucidi, e non oppose resistenza. Quella volta gli diedero una scarica di elettroshock che avrebbe abbattutto un cavallo. Ma non Lorenzo Taccini. Tornò in paese ancora per un breve arco di tempo. Si trascinava, non era più lui. Quando un giorno lo ricoverarono in una “casa di cura”, tutti sapevamo che non lo avremmo più rivisto. Ma non morì subito, anzi visse ancora per alcuni anni. Solo.

Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore. (Eschilo, Promoteo)

I matti non hanno piu’ niente,intorno a loro più nessuna città,
anche se strillano chi li sente, anche se strillano che male fa.
I matti ancora lì a pensare a un treno mai arrivato
e a una moglie portata via da chissà quale bufera.
I matti senza la patente per camminare,
i matti tutta la vita, dentro la notte, chiusi a chiave.

(I matti – Franceso De Gregori)

Una rotonda sul mare il nostro disco che suona